SAN BENIGNO: ALLA RICERCA DELLO SPLENDORE MEDIEVALE
San Benigno. Per i turnisti della Fiat, le operaie della Singer e gli studenti universitari era soltanto una delle fermate del pullman che, lentamente e a molte tappe, ci portava ogni giorno da Ivrea a Torino. Il percorso obbligato permetteva appena, passati l’ Orco e il Malone, di intravedere qualche vecchio muro e la cupola della chiesa di Fruttuaria. Tempo dopo, a piedi e con calma, ho visitato il paese alla ricerca ed alla scoperta delle sue parti più antiche, spesso offuscate dalla ristrutturazione selvaggia che nei decenni passati ha imbruttito quasi ovunque il nostro territorio.
MA QUALCOSA SI è SALVATO. ANZI, MOLTO, A SAPERLO CERCARE
Nella piazza principale, in cui si sbocca passando davanti al bel palazzo comunale con paramento di mattoni a vista, ecco la settecentesca Ala del mercato, anch’essa in mattoni, ben conservata e coperta da una bella travatura in legno.
Di fronte, una delle torri a pianta circolare ed ora monca dell’antico ricetto che inizia proprio qui. Risalente ai secoli XIV e XV, la struttura è riconoscibile dal reticolo degli isolati disposti lungo l’asse centrale da cui si dipartono le vie trasversali e da alcune bifore e decorazioni in cotto parzialmente salvate dalla distruzione. Ma bisogna proprio cercarle queste sopravvivenze, nascoste come sono dalla banalizzazione edilizia che caratterizza il quartiere, che poi è il vecchio “drint” (interno), la parte più antica dell’ abitato. I bei muri irregolari,qualche vecchia “lobia” di legno, molto sarebbe da bonificare e valorizzare.
All’estremità orientale, però, ecco apparire una bella torre-porta, simile a quelle di altri ricetti canavesani: basta pensare ad Oglianico, a Barbania, a Perosa. In laterizio, col fornice maggiore ad arco lievemente ogivale ed un altro più piccolo per i viandanti, conserva la struttura originaria e, nel prospetto esterno, fasce decorative a dente di sega, merletti in mattoni e le sedi tamponate dei bolzoni del ponte levatoio.
IL MONUMENTO DI MAGGIOR PRESTIGIO DI SAN BENIGNO: ABBAZIA DI FRUTTUARIA
A poca distanza dal torrione il monumento di maggior prestigio di San Benigno, proprio quell’abbazia di Fruttuaria attorno alla quale nel Medioevo si sviluppò il borgo agricolo, ci appare nelle forme tardo barocche volute dal cardinale Carlo Vittorio Amedeo Ignazio delle Lanze, abate commendatario, che nel 1770 fece abbattere la chiesa ed il monastero romanici per edificare una nuova grande costruzione su progetto attribuito a Bernardo Antonio Vittone.
Si salvò la torre campanaria, la struttura più possente di tutta l’antica abbazia. Questa era stata costruita da Guglielmo da Volpiano, abate benedettino, nei vasti possedimenti del padre Roberto, ai margini della Selva Gerulfia, in un terreno situato tra l’Orco e il Malone detto “fructuariensis locus”, cioè luogo destinato ai parti (in latino medievale “fructua”) delle greggi.
Guglielmo, riformatore in campo architettonico oltre che religioso, aveva già acquistato fama di gran costruttore a livello europeo per l’attività profusa in Francia, in particolare nella ricostruzione della chiesa abbaziale di Saint Bénigne a Digione.
I LAVORI PER L’ OMONIMA ABBAZIA CANAVESANA, INIZIATI NEL 1003, TERMINARONO NEL 1006.
Sotto la sua direzione, e poi per secoli, Fruttuaria fu un centro di potere religioso e politico, un polo economico, specialmente agricolo, e culturale. Qui si ritirò e visse gli ultimi anni Arduino d’ Ivrea, forse parente per parte di madre dello stesso Guglielmo.
A testimonianza di questo prestigioso passato rimangono preziosissimi reperti. Anzitutto la poderosa torre campanaria, che subito ci colpisce, in pietra ben lavorata, a sei piani delimitati da archetti pensili in laterizio; larghe lesene angolari ne accentuano la robustezza e lesene più sottili ripartiscono ogni facciata in specchiature simmetriche. Le aperture, semplici feritoie ai primi livelli, diventano monofore e, negli ultimi due, eleganti bifore.
LA TORRE DI FRUTTUARIA FUNSE DA PROTOTIPO PER MOLTI CAMPANILI CANAVESANI
Ad esempio quelli di Santo Stefano ad Ivrea, di Santa Maria ad Andrate, di San Nicolao a Borgiallo. All’interno, al secondo livello, conserva una cappella con abside ricavata nello spessore del muro e adornata da un affresco molto compromesso raffigurante la Madonna in trono col Bambino riferibile all’ XI secolo.
MOSAICI TRA PIÙ ANTICHI DEL PIEMONTE
Alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, a seguito dei lavori relativi all’ impianto di riscaldamento, ebbe inizio una serie di scavi che riportarono alla luce le strutture originarie della chiesa romanica. Questa, più piccola dell’ attuale, presentava tre navate delimitate da coppie di pilastri quadrati, un ampio transetto con absidi ad oriente, il coro terminante in tre absidi e sovrastante la cripta fuori terra, e la rotonda del Santo Sepolcro (che doveva ricordare quello di Gerusalemme) alle spalle dell’ altare principale. La facciata, allineata alla torre campanaria, era preceduta da un avancorpo porticato.
Ora sono visibili i resti degli alzati in muratura con intonaci imitanti il marmo, della pavimentazione originaria in malta e cocciopesto e, soprattutto, dei mosaici pavimentali che adornavano l’area presbiteriale.
I restauri hanno così restituito mosaici tra i più antichi del Piemonte, databili alla fine dell’ XI secolo: a tessere bianche e nere con qualche inserto di colore, raffigurano animali simbolici inseriti in motivi vegetali e geometrici.
Il pannello superiore destro (a sud) mostra due grifoni (simbolo cristologico) rampanti separati da un tralcio vegetale ed incorniciati da una treccia i cui nodi sono occupati da tondi in cotto rosso.
Il pannello sinistro (a nord) conserva solo in parte un leone ritto sulle zampe posteriori su campitura ad intreccio; qui le tesserine musive si associano a placchette marmoree bianche. Verso la navata una fascia a motivi geometrici e vegetali con inserzione di aquilotti (simboli imperiali); ancora oltre, al livello più basso del presbiterio, tre riquadri con grifoni sotto arcatelle e di fronte all’Albero della vita (simbolo cristologico). I pannelli meglio conservati sono ben visibili attraverso ampie aperture praticate nell’attuale pavimentazione. Le antiche strutture sono visitabili ( preferibilmente su appuntamento ) grazie ad un percorso realizzato al livello inferiore della chiesa, al termine del quale si può accedere alla cappella del campanile.
IL SETTECENTO
Ma anche la costruzione settecentesca è degna di nota, ampia e sontuosa come la desiderava il cardinale delle Lanze che volle prendere ad esempio addirittura la basilica di San Pietro.
Infatti la facciata maestosa, preceduta da un monumentale pronao, introduce all’ interno ricco di decorazioni in stucco e di affreschi. Importante, in sacrestia, una pala di Defendente Ferrari raffigurante la Madonna col Bambino e Santi di primo Cinquecento.
Dalla chiesa si accede al bel chiostro nuovo: di forma ottagonale, ha due ordini di arcate, l’ inferiore intonacato ed il superiore in muratura a vista, tipica dell’ architettura del tardo Settecento. Durante un recente restauro delle murature sono venute alla luce piccole bifore di epoca romanica appartenenti all’ antico chiostro e formelle quattrocentesche in terracotta con decorazioni antropomorfe e vegetali.
Il palazzo abbaziale, anch’esso voluto dal cardinale, fu progettato da Mario Ludovico Quarini, allievo del Vittone, ed ora è sede di un istituto professionale salesiano, quindi ha subito parecchie trasformazioni e non è visitabile.
ORA ET LABORA
Se poi si vuole completare la conoscenza del paese è consigliabile allontanarsi dal centro e raggiungere il Malone, dal quale si gode una bellissima vista , in particolare sull’abbazia attorniata dalle case del borgo di cui per molto tempo fu il vero fulcro.
Si può poi proseguire lungo strade campestri sempre col cavallo di San Francesco e, se i chilometri non spaventano ( ma è tutta pianura! ), dirigersi verso Foglizzo, Volpiano, Bosconero, terre un tempo appartenenti a Fruttuaria. La pianura coltivata, i campi estesi che hanno preso il posto delle antiche selve, ci potranno restituire, nonostante le trasformazioni e con un po’ di immaginazione, qualcosa dell’antica realtà in cui i monaci fruttuariensi, insieme ai contadini, univano all’importante “ora” l’onestissimo “labora”.