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Sant’Antonio Abate in Canavese

Il 17 gennaio in Canavese si festeggia Sant’Antonio abate, o Sant’Antonio vecchio, il santo più venerato e pregato per secoli dai contadini.

Sant’Antonio abate, o Sant’Antonio vecchio, il santo più venerato e pregato per secoli dai contadini.

Visse in Egitto tra il III e il IV secolo e fu uno dei fondatori del monachesimo orientale. Condusse la sua esistenza da eremita, nel deserto, dove resistette alle tentazioni demoniache che si presentavano sotto forma di belle donne o di animali, quali serpenti, cavalli, maiali.

La sua festa cade il 17 gennaio, in un periodo dell’anno molto importante per i contadini, caratterizzato fin dall’antichità da riti e feste collegati al passaggio dall’anno vecchio (che muore lasciando le ceneri fertilizzanti dei fuochi di Carnevale) all’anno nuovo. E i momenti di passaggio fanno paura perché sono incerti. Ci vuole una protezione speciale per essere sicuri che torni la primavera, che campi ed animali siano di nuovo fertili e fecondi.

I Romani offrivano a Cerere e alla Terra latte, farro e scrofe gravide. Ma pregavano anche Giano, il dio bifronte che guardava il passato e il futuro: il suo nome infatti, come quello di “Ianuarius” (Gennaio) deriva significativamente da “ianua”, cioè “porta”.  E agli dei della fecondità, ai quali erano sacri il maiale e il cinghiale, i popoli nordici sacrificavano un verro durante la festa di metà inverno, a Gennaio.

Col diffondersi della nuova religione, dalle nostre parti nel IV secolo, usanze e riti pagani vennero cristianizzati. E forse proprio la collocazione invernale della festa di Sant’Antonio favorì la devozione dei contadini che ne invocavano la protezione mediante la benedizione degli animali domestici, cavalli, mucche, capre, pollame. Un tempo si benedivano anche pollai e stalle, alla cui porta non mancava l’immagine del santo.

Negli anni Sessanta e Settanta al Masero, il mio paesello, ricordo bene sul sagrato della chiesa il possente cavallo bianco di Vasio, criniera e coda intrecciate con nastro rosso. E qualche capra. E poi i trattori, sostituti moderni degli animali da lavoro. Quando ero piccola davo per scontata l’immagine del santo circondato da animali affissa all’uscio delle stalle, in particolare ricordo quella del barba Miclin. Chissà se qualche santino è rimasto in qualche solaio.

Ma il nostro santo fin dal Medioevo fu pregato anche contro il “fuoco sacro”: con questa espressione si indicavano in realtà diverse malattie provocanti bruciori, piaghe e ulcere, tra cui l’herpes zoster, quello che chiamiamo “fuoco di Sant’Antonio”, e l’ergotismo. In particolare quest’ultimo era causato dall’intossicazione dovuta ad un fungo che cresceva nei periodi più umidi sulla segale, cereale coltivato anche nel Nord Italia dove il grave morbo provocava persino la cancrena. Più che mai ci voleva un aiuto speciale. E Sant’ Antonio, che aveva sconfitto il fuoco delle tentazioni, divenne il santo invocato dai malati di “fuoco sacro”.

Le reliquie di Antonio dall’Oriente erano state portate in Francia, nel Delfinato, dove erano iniziati i miracoli e dove accorrevano folle di malati. Qui nell’XI secolo nacque la Congregazione degli Antoniani, divenuta poi il potente Ordine ospitaliero, dedito appunto alla cura del fuoco sacro oltre che all’accoglienza dei pellegrini. Ognuna delle sue abbazie era provvista di uno “spedale” dove i malati, oltre ad essere ben nutriti, venivano curati con un balsamo contenente il grasso dei maiali che agiva come emolliente e isolante. Da notare che gli Antoniani potevano allevare i maiali anche nei centri abitati, purché muniti di campanella al collo, grazie al cosiddetto “privilegio del porco” ricevuto dalla Santa Sede nel XIII secolo.

Fatto sta che il maiale divenne uno degli attributi del santo, raffigurato con lui in numerosi dipinti e se cerchiamo in Canavese le immagini di Antonio otteniamo il percorso di un piccolo cammino.

Cominciamo dal Masero, frazione di Scarmagno: nella chiesa romanica di Sant’Eusebio, in un bell’affresco datato 1424, ecco Sant’Antonio col consueto mantello grigio con cappuccio e il saio bruno, capelli e lunga barba bianchi e riccioluti. Ai suoi piedi un maialetto dal pelo ispido e scuro, le orecchie dritte a punta, le gambe magre e la cinta senese chiara: assomiglia ad un cinghiale ma così erano i maiali di allora, allevati nei boschi. Con la destra il santo regge il bordone, il bastone di nocciolo con le gemme di vegetazione e ad impugnatura ricurva, come quelli dei margari e dei pellegrini: dobbiamo notarlo perché tradizionalmente il bastone terminava a “tau”, la “ti” greca simbolo quasi esclusivo degli Antoniani che richiama la croce, presente ovunque nelle loro sedi, sugli stemmi, cucita sulla veste degli ammalati e talora perfino impressa sulla groppa dei maiali. La sinistra regge il libro che si riferisce all’ordine degli Antoniani e dall’indice pende la campanella che annunciava sia i questuanti sia appunto i maiali allevati dall’ordine.

Ad Ivrea, nella cripta del duomo, in un affresco del XV secolo, Antonio ha gli stessi attributi e in più il fuoco alle spalle. La chiesa dei Viginti Uno dedicata a Sant’Antonio, sempre ad Ivrea, conservava una bella scultura lignea di fine Quattrocento ora ospitata nel Museo “Garda”: il bordone è ricostruito, mentre saio e mantello appaiono un po’ danneggiati a causa dell’abitudine di staccare qualche scaglia di legno da cui si sperava protezione per i soldati che andavano in guerra.

A Bollengo, nella chiesa romanica dei santi Pietro e Paolo di Pessano, ecco Antonio affrescato nell’abside e incorniciato da un decoro bianco e nero.

Tornando a Masero e dirigendoci da Mercenasco verso Candia, lungo un sentiero nel bosco e seminascosto dalla vegetazione, incontriamo il pilone di Novenchiaro, un bel nicchione affrescato verso la metà dell’Ottocento, ricco di santi che attorniano la Madonna e il Bambino. Tra questi, in posizione importante, il nostro santo inginocchiato dalla cui veste spunta un maiale irsuto e grigio.

Un altro pilone, di fine ‘800 o inizi ‘900, lo troviamo a Cortereggio, frazione di San Giorgio: qui gli affreschi sono stati eseguiti di recente: Antonio, piuttosto paffuto, indossa un saio scuro, sullo sfondo arde un grande fuoco e accanto a lui un bel maialone roseo che non ha più nulla da spartire con i verri magri e scuri ma è significativamente presente.

A Valperga, nella chiesa di San Giorgio, nella folla di dipinti del XV secolo, su un pilastro incontriamo l’affresco mutilo di Sant’Antonio   che agita la campanella con la destra e regge il libro con la sinistra.

Saliamo di altitudine, nella valle del torrente Gallenca. La cappella di San Grato, a Canischio, posta lungo la carrozzabile, conserva bellissimi affreschi di fine Quattrocento tra cui una commovente Pietà. Ma a noi ora interessa il nostro Antonio, raffigurato insieme a San Lorenzo e San Rocco: saio chiaro, manto grigio scuro, due campanelle appese al bastone a tau e il consueto porcellino scuro ai piedi. 

A Prascorsano, nella chiesa cimiteriale del Carmine, tra gli altri affreschi di inizio ‘500, di nuovo Antonio con la campanella appesa al bastone a tau.

Cambiamo zona e rechiamoci nei pressi di Ciriè. Nella chiesa romanica di Santa Maria in Spinerano, affrescata molto probabilmente dallo stesso autore del dipinto di Sant’Eusebio al Masero, il santo veste al solito il mantello grigio scuro col cappuccio, il saio bruno e porta la campanella appesa al braccio destro poggiante sulla spalla del committente. Nell’abitato di Ciriè la chiesa di San Martino di Liramo conserva tra gli altri un affresco del XV secolo, purtroppo mutilo: Sant’Antonio, dalla consueta bella barba bianca e dal viso severo, regge con la destra il libro e con la sinistra impugna forse il manico della campanella.

Naturalmente percorrendo strade e sentieri canavesani, fermandoci in paesi grandi e piccoli, frazioni e borgatelle, troveremmo di sicuro altre immagini di questo santo così amato e pregato dai nostri contadini di una volta, si tratta solo di esercitare l’occhio e l’ attenzione. Ma Antonio non lo abbiamo dimenticato, almeno al Masero, dove ogni anno si celebra in suo onore la messa, con tanto di priore, si benedicono i mezzi agricoli e le automobili e si termina il tutto con un bel pranzo. 

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